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Van Gogh, il folle immaginario

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VAN GOGH, il folle immaginario

Una “discesa infinita”. Così lui stesso definì la sua breve esistenza. Una vita in discesa grazie al successo che la sua stessa arte gli riserva. Un’arte che si rivelerà potente, unica e meravigliosa.

Nel momento in cui la società ne riconosce i meriti artistici,  fa di lui, padre della pittura moderna, una sorta di santo laico generoso, eroico, buono, stendendo un velo estetico sulla verità della sua parabola di vita. La sua è una vicenda straordinaria, la storia di un piccolo uomo che sfida la società e la cultura del suo tempo, sicuro di vincere. E vince, anche se  questo gli costa la vita. Una vita dissipata in privazioni d’ogni genere, fino al sacrificio finale, con una coerenza sostenuta solo da un’incrollabile fede in sé stesso.

Della sua esistenza, prima ancora che della sua pittura, fa un’opera d’arte. Fa esplodere la forma e il colore, riempiendoci di una bellezza nuova e lasciandoci un’eredità pesante: il pauroso rispetto per una natura meravigliosamente crudele. Disgraziato, eppure così pieno della propria arte da annullare, in un uomo debole e fragile qual era, la possibilità stessa di una vita normale.

Oggi facciamo festa con Vincent VAN GOGH.

Di ottima famiglia

A Zundert, piccolo paese nel sud dell’Olanda, nel giardino antistante la chiesa protestante in cui il padre di Vincent, opera come pastore, ci sono alcune tombe. Su una si legge: “Vincent Van Gogh – 1852.”. Non è la tomba del Vincent che noi conosciamo, bensì quella di suo fratello, nato morto esattamente un anno prima di lui, addirittura lo stesso giorno. Non occorre essere esperti di psicologia per capire che vedere tutti i giorni una tomba col proprio nome, non può fare bene alla testa di un bambino. Quella pietra è un costante, drammatico ammonimento per il piccolo Vincent: glitocca prendere confidenza con la morte ancor prima di conoscere la vita.

La sua è un’ottima famiglia olandese: Theodorus, il padre di Vincent, è il prete di paese. Rassegnato e silenzioso, da lui il figlio eredita una scarsissima capacità dialettica, eccetto quando non discutedi pittura. La madre, Anna Cornelia, dà al primogenito Vincent cinque fratelli, fra i quali Theo, l’unico della famiglia a cui il futuro pittore si sentirà davvero legato, come dimostrano le preziosissime lettere che i due fratelli continueranno a scriversi fino alla morte dello stesso Vincent nel 1890.

Van Gogh è descritto da tutti come un bambino chiuso in sé stesso, di carattere irritabile.  È molto attratto dalla natura, della quale, prima ancora di riuscire ad afferrarne l’anima con le sue opere artistiche, amaconoscere i fiori più rari e spiare la vita di ogni specie di animali. A scuola non rende molto, per questo i genitori decidono di mandarlo in collegio, dove impara piuttosto bene il francese, l’inglese e il tedesco. Tuttavia, all’età di 15 anni Vincent è costretto a interrompere gli studi per volere della famiglia, la quale decide di mandarlo presso la famosa galleria internazionale Goupil, all’Aia, su raccomandazione di uno zio mercante d’arte.  È qui che Vincent sviluppa il suo amore per l’arte. Anche il fratello Theo, intanto, segue la stessa collocazione, ma a Bruxelles.

Nella galleria, Vincent è serio, zelante e paziente anche con la clientela più capricciosa. E ciò porta i suoi familiari a intercedere nuovamente in favore della sua carriera facendolo trasferire nella sede di Londra.  Qui, il giovane Van Gogh, appena ventenne, si innamora per la prima volta.

Amori carnali, amori divini

Ursula Loyer è il nome della sua amata. Con la madre gestisce un asilo infantile e per arrotondare le entrate mensili affittano una camera della casa, e Vincent è il loro inquilino. Lui è innamoratissimo. Senza mai dichiararsi, la considera già sua moglie. Lo fa dopo un anno e Ursula, con grande sorpresa del ragazzo, gli spiega di essere già fidanzata con un pensionante precedente. Vincent rimane annichilito, eppure insiste: vuole che la lasci per lui. Ursula è irremovibile, pensa che quell’olandese dai capelli rossi e dal volto lentigginoso sia troppo povero per assicurarle un futuro.

La delusione sentimentale lascerà in lui un segno incancellabile. Quel primo rifiuto acuisce la sua tendenza malinconica e nevrotica e un complesso d’inferiorità nei confronti delle donne. Si riavvicina al sentimento religioso che gli è stato instillato in famiglia. Finisce per rompere con la Galleria Goupil, ma il solito zio premuroso ottiene per lui un trasferimento a Parigi dove trova impiego come commesso nella galleria d’arte.

Vincent però pensa soltanto a Ursula.

Licenziato definitivamente dalla casa d’arte, rientra in Inghilterra a caccia della ragazza. Ma Lei proprio non vuol saperne di lui. Da qui cominciano le crisi mistiche di Van Gogh, che trova nella passione religiosa un sostituto dell’amore. Ormai ha 24 anni, e vive come un asceta al punto che la famiglia decide di assecondare le sue aspirazioni iscrivendolo, ad Amsterdam, agli esami di abilitazione al sacerdozio. Tempo perso: si rifiuta di studiare greco e latino, indispensabili per poter essere ammesso all’università.

Fino a quando non scoprirà la pittura, Vincent vuole sacrificare la propria sofferenza a Dio perché sente il bisogno di giustificare la propria esistenza. Si iscrive quindi a una più semplice scuola per evangelisti a Bruxelles. E’ così volonteroso che poco dopo lo mandano in missione nel villaggio minerario di Wasmes, dove, vedendo le atroci sofferenze dei minatori costretti a scavare a quasi 700 metri di profondità nella terra, un giorno chiede al direttore come mai la società mineraria non sia “più buona” . Non ottiene risposta.

Van Gogh decide allora di portare su di sé il dolore e le sofferenze di tutto il villaggio, dormendo sulla paglia e nutrendosi di avanzi. Quando gli ispettori della chiesa lo scoprono, gli tolgono l’incarico, perché “ha svilito la dignità sacerdotale e offeso Dio”. Vincent, inorridito, smette ogni pratica religiosa e da quel momento ignora Dio e gli uomini.

È da questo momento che inizia a dipingere: per dimostrare la brutalità dell’esistenza.

La scoperta della natura

Nei primi tempi Van Gogh non comprende la propria scoperta. Anche se sostiene che lo scopo dell’artista è “penetrare profondamente la natura”, la sua è ancora un’idea romantica. Solo qualche anno dopo, Vincent comincerà a capire:

[2° VOCE] “Non mi sento più impotente di fronte alla natura come un tempo”

In realtà sta affrontando contro di lei una lotta che gli costerà la vita. Scopre che la natura ha un’anima e che quest’anima può essere meschina, cattiva, noiosa, come tutte le anime. Nei quadri di Van Gogh ci sono stelle malintenzionate e misteriose, cipressi gobbi e infelici. Le spighe di grano che si vedono nei campi raffigurati nelle sue tele, sono volgari, non belli.

Non viene capito né amato perché  sa vedere qualcosa che nessuno è ancora stato capace di mostrare: la natura viva, che può essere raccapricciante e cattiva, troppo spiacevole per essere compresa. Van Gogh ama e subisce allo stesso tempo la sua arte. Ne sono un esempio tangibile i quadri I mangiatori di patate, dipinto nel 1885, e il Paesaggio con erpice e aratro del gennaio 1890. Una forza ignota e violenta esce dai colori e pare mostrare il volto minaccioso nei confronti di chi guarda.

Van Gogh diventa Van Gogh

Dal 1881 fino alla fine dei suoi giorni, Van Gogh si fa mantenere dalla famiglia sollecitando in continuazione denaro. Il suo bisogno di dipingere è tale da superare qualunque imbarazzo o vergogna..

Nel frattempo, torna a vivere nella casa paterna a Etten. Qui passa il tuo tempo vagando ogni giorno per le lande deserte alla ricerca di qualcosa che attiri la tua attenzione artistica. Quando la trova, non esita neanche un secondo. Fissa il suo sgabello a terra e inizia a disegnare tenendo il foglio sulle ginocchia

Per lavorare e diventare un artista si convince che è necessario l’amore. S’invaghisce di sua cugina Kee, ma le resistenze della famiglia e lo sdegno di lei rifilano a Vincent l’ennesima cocente delusione. Il vuoto immenso che si spalanca nel suo cuore è colmato dalle prostitute le quali, dopo breve tempo, finiscono per diventargli indispensabili per riempire il bisogno che ha di amare.

Dopo il Natale del 1881 litiga furiosamente col padre e viene scacciato di casa. Si rifugia ancora all’Aia dove un altro cugino, il pittore Anton Mauve, gli mette a disposizione la sua prima vera casa. E’ qui che incontra Sien, una prostituta, che è anche la sola donna con la quale Van Gogh riesce ad avere un rapporto stabile e duraturo. Lei è la donna ritratta nell’opera che Vincent intitola Sorrow, cioè dolore, pena, in inglese, disegnata nell’aprile 1882.

Van Gogh è felice, cura e nutre la povera donna incinta, peraltro di un figlio non suo, con il poco che ha, lavorando a ritmi incalzanti. Il legame con Sien provoca però gravi rotture familiari e con alcuni dei suoi amici più cari: un’unione così anomala non può che solleticare i sospetti e le diffidenze di una società conservatrice come quella di stampo piccolo-borghese di fine ‘800 . Anche il rapporto con il fratello Theo, dal quale ha sempre ricevuto sostegno economico, si incrina pericolosamente. Non potrà più mandargli denaro, nonostante le disperate suppliche di Vincent.

Questa privazione, scatena in lui una lotta interiore.

Di fronte alla decisione tra l’essere mantenuto e dipingere, o avere famiglia, fare un lavoro qualsiasi e non dipingere, sceglie la propria arte. Per questo la relazione con Sien, termina.

Quando Vincent torna tra le odiate mura di casa, raggiunge un accordo con il fratello Theo: in cambio di un piccolo stipendio, Vincent manderà a Theo tutti i suoi lavori. E così, per l’equivalente di poche centinaia di euro al mese, Theo ricevette opere che oggi valgono decine di milioni di euro l’una.

Alla fine del 1885, a 32 anni, Vincent dipinge I mangiatori di patate , il suo primo capolavoro, anticipazione dell’espressionismo. In  questo dipinto Van Gogh rivela in pieno la sua profonda condivisione del dolore dei più umili, distrutti dal dolore. E’ una pittura disperata, dove riversa la stessa fatica di esistere che ha in sé. E’ però proprio dagli stessi umili che Vincent comincia sul serio ad essere considerato pazzo. Più diventa bravo e più viene deriso: questa è la sua sorte. Tuttavia, Si sente pronto per Parigi e, senza avvertire Theo che da qualche anno vive stabilmente nella capitale francese e che non lo vuole con sé, parte per la Ville Lumière. E’ il marzo 1886. La sua arte è sulla pista di decollo.

A Parigi per esplodere

Della capitale francese a Van Gogh interessa unicamente la pittura. Grazie agli impressionisti (Degas, Cèzanne, Renoir, tra gli altri) Vincent compie la propria svolta artistica, discostandosene però quasi subito per anticipare la corrente successiva: quella espressionista, dove si privilegia, esasperandola, la propria interpretazione emotiva della realtà, non ciò che si vede realmente.

Appena arriva a Parigi, Vincent va a vivere con Theo. Per due lunghi anni abiteranno insieme, al termine dei quali a uscirne rovinato sarà proprio Theo, spossato da quel fratello litigioso, sporco, testardo e spietato. A Parigi Vincent dipinge moltissimo, sviluppa una serie impressionante di autoritratti e realizza un quinto di tutta la sua produzione totale, almeno 200 quadri. Nel carattere diventa più sicuro di sé, anche se i rapporti con le altre donne restano limitati alle sole prostitute.

Al caffè Le Tambourin, ritrovo di artisti gestito dall’italiana Agostina Segatori con la quale Vincent, come tanti altri, andrà a letto, scopre l’assenzio, liquore ad altissima gradazione alcolica che in Francia è quasi un rito sociale. Si dice che quando Vincent, si tagliò mezzo orecchio, ne avesse bevuti diversi bicchieri.

Nonostante tutto questo successo, niente più ormai trattiene Vincent al nord. Intento com’è a cercare il sole per le sue tele, Il 20 febbraio 1888 parte per Arles, dove non conosce nessuno.  Lontano dal fratello Theo, che pur avrebbe continuato a mantenerlo mensilmente.

L’assedio a Gauguin

Vincent e Paul Gauguin si conoscono in quegli stessi caffè parigini che costituivano il punto di ritrovo prediletto per artisti squattrinati e reietti. Gauguin è pieno di sé, e non stima Vincent né come uomo né come pittore. Forse Van Gogh è attirato proprio da quell’egoismo che permette a Gauguin di divorare la vita. Forse pensa che, con la sua passione per il sole e i viaggi, sia il compagno più idoneo a vivere con lui nel sud. E’ un Vincent che si atteggia a chioccia, disposto a sacrificarsi più di quanto gli tocca già, pur di avere accanto l’amico. Insieme frequentano i bordelli più popolari, ma il fascino esotico di Gauguin mette in ombra il brutto olandese e gli permette di accaparrarsi le donne più belle (o meno conciate). Per il resto dipingono tutto il giorno e imparano l’uno dall’altro.

Gauguin non capisce la pittura di Van Gogh. Pensa sia solo un pazzoide di buona volontà, e un giorno decide di oltraggiarlo gravemente: gli fa un ritratto, ma il modo in cui lo raffigura lo fa sembrare un demente. Quando lo vede, Vincent si infuria, come se quel quadro lo avesse all’improvviso messo di fronte alla reale considerazione che il suo amico ha per lui . L’intesa tra i due inizia a venir meno. E poco prima del Natale del 1888 ecco la tragedia.

Il risentimento di Vincent Van Gogh verso Gauguin si manifesta per la prima volta una sera, dopo cena. Usciti insieme per bere assenzio, d’un tratto, senza alcun motivo apparente, Vincent scaglia un bicchiere verso Gauguin, cercando invano di colpirlo in faccia. Gauguin non reagisce. Lo riporta tranquillamente a casa, ma il giorno dopo annuncia che se ne andrà.

Vincent supplica disperatamente Gauguin di restare ancora e lo convince. Ma la convivenza dura poco.  La sera prima di Natale, Gauguin va a fare una passeggiata da solo, quando all’improvviso è raggiunto da Van Gogh che si avventa su di lui con un rasoio aperto in mano. Vincent riesce a fermarsi poco prima di colpirlo.

Preso dal momento di follia, una volta arrivato a casa, Vincent si mette davanti allo specchio e con un colpo netto si mutila l’orecchio sinistro, la parte inferiore. Poi si fascia alla meglio, incarta il pezzetto di carne e lo porta alla piccola Raquele, la sua prostituta preferita. Quale migliore oltraggio alla società che considera quelle donne come luogo per depositare gli escrementi, che farle omaggio di un pezzo così nobile come il suo orecchio?

Gauguin lascia Van Gogh nel 1888 e riprende a viaggiare tra la Francia e le isole più esotiche. Morirà nel 1903. Farà in tempo ad assistere al successo postumo del rivale che aveva così tanto sottostimato.

In catene

All’ospedale di Arles, Vincent viene curato per la ferita e subito dopo chiuso nella cella dei pericolosi, incatenato a un letto di ferro murato alle pareti e al pavimento. Il soggiorno dura circa due settimane, quando esce è un’intera comunità, quella di Arles, a schernirlo e a chiedere che quel pazzo pericoloso venga rinchiuso nuovamente. Accetterà qualsiasi affronto, anche il manicomio e la derisione, purché lo lascino dipingere per il tempo che gli resta. E lui stesso che in maggio, dopo cinque mesi di libertà, chiede di essere ricoverato nel manicomio di Saint Paul-de-Mausole, vicino a Saint Remi. A pesare, forse, sulla sua scelta di farsi internare vi sono il fidanzamento, il prossimo matrimonio e l’imminente bambino in arrivo del fratello Theo, con il terrore di non ricevere più il suo sostegno economico. Finge allora di essere pazzo, invia al fratello lettere minatorie e solo allora Theo si decide a pagargli il ricovero in manicomio. Lì dentro ritrae dei vecchi disperati, ma anche la famosa Notte stellata. E’ il 1889, nel dipinto le stelle si muovono, sono parte di una corrente celeste, indecifrabile.

[2° VOCE] “I pittori, per non parlare che di loro, sia pur morti e sepolti, parlano alla generazione successiva, o a molte generazioni successive, con le proprie opere. Questo è tutto o c’è anche dell’altro? Nell’esistenza dell’artista forse la morte non è l’atto più difficile. Io dichiaro di non saperne proprio nulla, ma sempre la vista delle stelle mi fa sognare. Semplicemente come mi fanno sognare i puntini neri che nella carta geografica indicano città e paesi. Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri sulla carta della Francia? Se prendiamo il treno per recarci a Tarascona o a Rouen, prendiamo la morte per raggiungere una stella”.

Una volta terminato il dipinto, Vincent tenta di ammazzarsi e ha una crisi di pazzia che dura oltre un mese. Lo curano come epilettico, lo costringono per due volte alla settimana a stare in una vasca piena d’acqua per due ore. Eppure continua a dipingere con frenesia e disperazione. Nel novembre 1889, dopo essersi convinto grazie a Theo a partecipare a una mostra a Bruxelles, è proprio il suo quadro La vigna rossa a essere venduto, anche se l’acquirente si decise più per affetto che per stima. La vigna rossa resterà l’unico dipinto che Van Gogh farà in tempo a vedere acquistato.

Sulla via della fine

Nel maggio 1890 Van Gogh si appresta a tornare al nord: ormai ha paura della luce e della gente del sud. A Parigi incontra una famiglia felice: Theo è fiero di presentargli la giovane moglie e il bambino che ha voluto chiamare proprio Vincent. Passa tre giorni sereni nella capitale francese, ma Vincent rappresenta un pericolo. Theo gli suggerisce così di partire per Auvers, a ovest, dove troverà il dottore e amico Gachet, più pittore che psichiatra, che potrà stargli vicino. Poco prima di  partire, Vincenttenta ingenuamente di convincere Gauguin a tornare a vivere con lui. Ma nessuno vuole stargli vicino, nessuno tranne lo strano dottor Gachet, figura che si rivelerà fatale per Van Gogh.

Ognuno dei due è scontento della mezza vita che gli è toccata: al dottore quella senza creazione, a Van Gogh la creazione senza un’esistenza degna di questo nome. Non cura Vincent, se non incoraggiandolo ad andare nei campi con tele, pennelli e colori, ovvero spingendolo sempre più verso la disperazione esistenziale e cosmica che lo avrebbe portato al suicidio. In 70 giorni termina 70 quadri e almeno 30 disegni, tra i quali il Campo di grano con volo di corvi, comunemente ritenuto l’ultima opera di Van Gogh. Sa che il suo tempo è terminato. Certamente il volo dei corvi sembra preannunciare un dramma: sembra di sentirli urlare, mentre cercano una preda.

Vincent si termina

Il 27 luglio 1890 è domenica. Vincent si sveglia alle cinque come sempre ma, rispetto al solito, non va nei campi a dipingere. Scrive una lettera a Theo, l’ultima. non la termina, se la infila in tasca. In un’altra tasca mette la pistola, poi scende per la colazione. Dopo mangiato si alza da tavola ed esce, per la prima volta senza cavalletto, tela e colori. Arriva fuori dal paese con passo veloce e ingobbito. Ancora qualche centinaio di metri ed entra nella buca del letame, accende la pipa, fuma con calma l’intera carica, la rimette in tasca e impugna la pistola. Preme il grilletto. Si spara proprio sotto le costole, all’altezza dell’ombelico, puntando la canna verso l’alto. Non è una ferita grave, oggi lo avrebbero salvato. Rimane nel letame per un tempo lunghissimo e quando fa buio torna disciplinatamente in albergo, barcollando. I padroni notano la ferita e chiamano il medico e la polizia, alla quale però si rifiuta di proferir qualsiasi parola. Il giorno dopo i dolori dell’infezione sono tremendi. Nessuno pensa di trasportarlo a Parigi, nessuno pensa di salvarlo. In fondo, è un povero pazzo che si è sparato: era inevitabile, prima o poi. All’una e trenta di notte, il 29 luglio, Vincent sviene e poco dopo muore, avvolto nella tristezza, in quella compagnia tanto lontana dai colori del suo spirito.

[2° VOCE] “Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione vi si è consumata a metà”.

Vivere per l’infinito

Per Antonine Artaud, forse l’uomo che è riuscito a entrare in maggiore intimità, postuma ma reale, con Van Gogh, la sola risposta dell’uomo veramente sano è la follia: il primo passo verso la salute, contro la repressione, l’integrazione, la negazione di sé. Se la società soffoca le più profonde aspirazioni della vita non resta che la follia, per liberarsi. Vincent Van Gogh, ben lontano dalla visione comune di cantore della natura, ha ferito la carne delle cose, le ha fatte sanguinare. Tra tutti i pittori, è quello che ci spoglia più a fondo e fino alla trama. Si può vivere per l’infinito dunque, non saziarsi che d’infinito. Fu Karl Jaspers, nel 1922, nel saggio Strindberg e van Gogh a intuire che Vincent soffriva soprattutto di una sensibilità esasperata. Come Nietzsche, dichiarato pazzo anche lui: entrambi soli, come spesso accade alle creature più autentiche, in balia della gente “sana”.